Apparenze

Doppia personale alla Galleria Borghini ArteContemporanea. In mostra Fiorenzo Zaffina e Claudia Quintieri. Il titolo dell’esposizione, Apparenze, aperta fino al 17 febbraio, chiarisce in parte gli intenti del percorso. Due sale, una per artista e niente di più. E tanto basta, potremmo dire, essendo il tema piuttosto ampio che già da sé potrebbe riempire interi quartieri. Lorenzo Canova e Rossella Alessandrucci sono le firme del testo critico che introduce la mostra. Apparenze dicevamo, quelle che non ti aspetti, che compaiono però senza violenza come lentamente nella fitta nebbia che piano piano scema, o come i mattoni che si affacciano fra le crepe di un muro. Visioni che possono e sono espressione di un diverso sentire ma unite entrambe nella fondamentale importanza data alla luce.

Ma cominciamo dall’inizio, dalla prima sala. Ad accogliere il visitatore i recenti lavori di Zaffina, monoliti in plexiglass spesso trasparenti, altre volte con particolari colorati. A un primo sguardo sembrano vetro. Poi appaiono i graffi che l’artista lascia sul materiale con trapani e frullino e regalano al plexiglas una porosità che contrasta con la trasparenza del suo insieme. Sono segni che vogliono essere violenti, segni che come in una specie di camera degli orrori si rispecchiano e si deformano nel monolite alterando il senso spaziale dell’osservatore. Ma, e soprattutto, questi graffi ricordano le crepe che Zaffina realizzava sugli stucchi per lasciar parlare i muri, per mostrare la loro storia sedimentata nel tempo, spesso nei secoli.

La luce studiata che sottoliena gli interventi sul plexiglas dell’artista lascia il posto all’ombra che abbraccia chi entra nella seconda sala. Qui non arriva luce naturale. A rendere più chiara la stanza solo un video e dei light box. In fondo e leggermente a destra il cortometraggio Marikana, lavoro firmato da Quintieri. In un uno sfondo incomprensibile che potrebbe essere ovunque e in qualunque tempo, fra le nebbia bianca che compre ogni riferimento spaziale, si stagliano due figure. Un uomo e una donna. Le prime scene sono particolari di mani, gambe, piedi e braccia che provano a testare un contatto fra loro a instaurare un dialogo muto fatto solo di segni e di corpi. Poi arrivano i volti che confermano e sottolineano l’intento del lavoro: un omaggio alla diversità che non deve diventare in nessun modo esclusione ma potenzialità di nuove aperture. Frame del video diventano fotografie, dei light box allestiti come delle ali ai lati del corto.

E poi lo spettatore esce e viene accecato dalla luce romana che rimbalza dai lisci sampietrini dritta sugli occhi. E allora capisce che quella stessa luce nel suo concedersi e nel suo negarsi è quella che rende possibile entrambi i lavori, anzi, che li definisce che, insomma senza di questa non ci sarebbero i cangianti riflessi dei monoliti in plexiglas di Zaffina ne tantomeno il video bianchissimo della Quintieri.